Nel corso degli ultimi due anni EXPO è stato al centro di dispute di tutti i generi, da quelle politiche e giudiziarie, a quelle sociali, per non parlare di quelle finanziarie. Ora che tutto è finito se ne può parlare, mi auguro, in termini più distaccati. Da una parte è stato definito un successo, dall’altra un flop; a mio avviso, occorre capire a quali parametri ci si riferisca per affermare un successo o il suo opposto.
Il dato di riferimento utilizzato dall’organizzazione e da molti politici per definire il successo di EXPO è il numero di visitatori, pare oltre 22 milioni di persone (un dato approssimativo e non oggetto di certificazione). A me non sembra un dato molto espressivo di un successo (le previsioni a un anno dall’evento erano di 29 milioni).
È come se si considerasse più importante riempire uno stadio di tifosi invece che vincere la partita, dato per scontato che ci fosse stata una partita da vincere.
In se il dato dice poco, possiamo confrontarlo con le ultime edizioni dei vari EXPO, in rapporto, naturalmente, alla popolazione di ogni Paese nell’anno dell’evento. Vedi tab.1
Appare subito evidente dalla tabella che il miglior rapporto popolazione/visitatori interni appartiene a EXPO Milano con il 26,2%, mentre la Cina, additata da molti come la migliore edizione, in realtà presenta un rapporto popolazione/visitatori interni “solo” del 5,2%.
Se si osserva, poi, l’incidenza dei visitatori esteri, EXPO Milano ha la migliore performance in assoluto (29,3%).
Da più parti si è accusata l’organizzazione di favorire gli ingressi con sconti, regalie varie e prezzi scontati dopo le diciannove. Secondo me non è questo il punto, sono convinto che in parte lo facciano tutti, occorre invece capire, come detto all’inizio, la corrispondenza fra progetto e risposta del pubblico e qui, a mio avviso, le cose si “appannano” un po’. Chi entra alla sera, oltre a cenare, ha la possibilità di fruire del “messaggio” collettivo relativo al tema proposto? Ne dubito, la preoccupazione più importante è quella di provare qualche cucina particolare, compreso l’hot-dog, poi, se avanza tempo, si fa un “giro”.
La riflessione è avvalorata dalla presenza, per parte italiana, di due “catene” (si fa per dire) CIR FOOD ed EATALY con oltre 40 punti di ristoro, con ampia scelta di cibo (e prezzi): dai piatti di grandi Chef al trancio di pizza, quindi, chioschi, bar, ristoranti dei Paesi espositori etc.
Secondo un’indagine svolta da Exè/Coldiretti, sono stati spesi, per mangiare, 570 milioni di euro, di cui il 32% solo cucina italiana, il 25% cucina straniera, mentre il 34% le ha provate tutte e due. Dei circa 28 milioni di pasti, sono stati consumati un terzo la sera e due terzi a pranzo, considerando colazioni e snack.
Se all’offerta di cibo si affianca l’offerta d’intrattenimento, spettacoli e conferenze, il tempo a disposizione del visitatore, soprattutto serale è, in sostanza, finito.
Durante l’EXPO è nato, voluto ed elaborato da alcuni ministri e Grandi Chef, il Food Act,
per valorizzare il made in Italy nel mondo. Riporto solo le intestazioni delle prime dieci azioni, come da comunicato stampa del Ministero delle Politiche Agricole del 28/07/2015.
1. Chef ambasciatori della cucina italiana nel mondo
2. Valorizzare le eccellenze italiane e la dieta mediterranea
3. Potenziamento della distribuzione del vero made in Italy agroalimentare
4. Alta cucina alta formazione
5. Estensione utilizzo stage per la ristorazione di qualità
6. Più aggregazione nella filiera e nella ristorazione
7. Dare credito alla cucina italiana giovani
8. Rafforzare binomio turismo-ristorazione di qualità per promuovere i territori
9. Cucina italiana di qualità certificata
10. Cucina italiana come cultura, identità, educazione, inclusione
A parte tutte le buone intenzioni, a parte la “sinistra” assonanza con il Job Act, poiché si tratta di un documento di lavoro (interno al Paese) che ha come priorità assoluta l’italianità, era proprio necessario chiamarlo con una denominazione anglosassone?
Un prodotto di questo progetto è il videoclip (firmato da Muccino) apparso in questi giorni sui pannelli luminosi a Time Square a New York, dove, fra gli altri, il logo“Extraordinary Italian taste” è perfettamente centrato, indipendentemente dal mercato USA.
Il messaggio è indirizzato a influenzare il consumo di prodotti originali italiani e non “falsi”, peccato che ci siano, in USA, luoghi (ristoranti/negozi) italiani che vanno per la maggiore dove si vendono prodotti con denominazione italiana (se non regionale) prodotti e confezionati rigorosamente negli USA.
Non è possibile descrivere in dettaglio tutto ciò che è stato EXPO Milano fra convegni, spettacoli, conoscenza, conferenze, e cosi via, non sarebbe nemmeno il luogo adatto, l’aspetto pubblico è stato buono, non so se il pianeta sarà meno affamato dopo la manifestazione,
anche perché ogni iniziativa è legata a interlocutori che parlano lo stesso linguaggio, il pubblico può essere stato, forse, sensibilizzato, ma in misura minima, anche perché troppo occupato a fare code per entrare nei vari padiglioni (53 in totale, un altro record).
Quella delle code è stata una vergogna grave, non è possibile che si chieda alla gente di programmare preventivamente la propria visita a EXPO Milano (di giorno, ovviamente) e, una volta dentro, “liberi tutti” di fare dalle due alle otto ore di coda: indecente.
Vorrei riferire di un altro aspetto che mi riguarda più da vicino: il gelato artigianale. Un’eccellenza italiana, quasi assente alla manifestazione.
A onor del vero qualche iniziativa c’è stata, ma isolata e su iniziativa di aziende (anche con ingenti investimenti), di prodotti per gelateria, attrezzature, vetrine; qualche gelateria singola, etc. nulla di organico e niente associazioni: un’occasione persa.
Alla fine penso che lo slogan finale possa trasformarsi, con il dovuto rispetto, da “Nutrire il Pianeta” a “Nutrire i visitatori”.